Alessandro Sarri
Aus dem Leben der Wildkatzen / Galleria Enrico Fornello
2012
IT
Se ‘l’immagine’ dell’oggetto non può far altro che preservare l’inevitabile riflesso di un prototipo invisibile, in quale modalità possiamo rendere invisibilità a questa dimensione manifestante che non è differente dal visibile pur non coincidendo con esso? Nel lavoro di Leiß la dimensione virtuale non può essere pensata come un’essenza reale al di là di una pragmatica esperienziale perciò gli oggetti disposti qui non possono che non collimare con se stessi senza per questo divenire atomi sostanziali. La differenziazione è anche modulazione e queste cose altro non possono fare che differirsi restando assolutamente non separate, incatenate nel rovescio metonimico che non cessa mai di ritirarsi in un movimento di presentificazione che sottolinea, sempre di nuovo, la congenita ‘infondatezza’ che lo contraddistingue. Le rimanenze nuomeniche di questi grumi di formalizzazione senza ritorno infettano ogni risoluzione identitaria attraverso una cosità a-topica che scivola e insiste da qualche parte sotto ogni tassonomizzazione, da qualche parte sotto lo iato ricorrente del ‘sempre qui’ e del ‘non ancora’.
L’identità presunta si scontra così con una coincidenza implosa che non cessa mai di tornare dove non è mai stata. L’oggetto, come sembra indicare Leiß, deve ‘dire’ l’evento senza distruggerlo, l’evento inaudito che torna in sé solo perdendosi in sé e precisamente nel punto cieco in cui si tocca toccando, si vede vedendo in una corrispondenza incrostata indecidibilmente in un futuro anteriore costitutivamente impreconizzabile: “dopo la prima morte non ce ne sono altre”, scriveva Dylan Thomas. Un’articolazione impossibile, un’articolazione dell’impossibile che non è niente, un’articolazione attivamente inoperante il cui senso s’annida nel grado-zero primario in cui i raggi di mondo s’intersecano in una dischiusura elementale intrinsecamente operarativa in ogni configurazione d’esperienza. Un’apertura interstiziale di vestigia celibatarie (argilla, terra, metallo, legno, bronzo) che avranno testimoniato gli arti fantasma di questi acrostici infestati che implicano già ogni negazione come ogni affermazione, innestandosi silenziosamente a tergo di ogni asserzione, diniego e addirittura di qualsivoglia domanda formulabile. Qualcosa che Leiß, insieme a Merleau-Ponty, chiamerebbe il “vero negativo”: il vero negativo all’interno del positivo, il vero niente all’interno del qualcosa, il vero non-essere all’interno dell’essere ovvero l’intrecciarsi inesausto di una scarnificazione chiasmica che ha sempre gia sperimentato, dall’esterno più all’interno di sé, la potenzialità di un evento radicalmente imploso.
EN
If the ‘image’ of the object can do nothing but preserve the unavoidable reflection of an invisible prototype, how can we give to this sort of invisible, this dimension of manifestation which is not different from the visible but nevertheless not identical to it? In Leiß’s work the dimension of virtuality cannot be thought as a real being existing beyond the circle of experience so the objects displayed here are neither identical to themselves nor substantial atoms. Differentation is also a modulation, therefore while differing these things are however absolutely together, enchained in a metonymic havoc that never stops withdrawing in a movement of presencing that does nothing but underlining itself in a congenital groundlessness. The noumenal leftovers of these clots of formalization beyond repair infect the status of any individuation so the a-topic thingness of the materializing thing drifts and insists essentially somewhere below unity and taxonomy, somewhere below the recurring between of ‘the always already’ and the ‘not yet’.
The presumed identity finds itself faced to a imploding coincidence that never stops coming back where it has never been. The object, as Leiß seems to indicate, must ‘say’ the event without distroying it, the inconceivable event that returns to itself only by losing itself and precisely in the blind spot in which it touches itself touching, sees itself seeing in a correspondence lingered in an undecidable and never accomplished future perfect: “after the first death, there is no other”, Dylan Thomas wrote. An impossible articulation, an articulation of the impossible which is not nothing, an actively inoperant articulation by means of which sense lurks in the primary zero-point in which the rays of the world cross one another in an elemental disclosure intricately operative in every configuration of experience. A gaping-openess of celibatarian relics (clay, metal, wood, bronze) that will have witnessed the phantom limbs of these haunted acrostics that keep on encompassing its negation as well its affirmation, silently grafting behind all assertions, denials, and even behind all formulated questions. Something that Leiß, together with Merleau-Ponty, would call “the true negative”: the true negative inside the positive, the true nothing inside the something, the true non-being inside being, in other words, the endless intertwining of a chiasmic fleshing, wherein the potential of a radically implosive event, with alterity as its very heart, has already been constituted, already enjoined.